MATERIE:LETTERATURA,FILOSOFIA
LETTERATURA
Il dolore provoca reazioni non solo in chi lo prova direttamente, ma anche in chi assiste a quello altrui; partendo da un testo quale “La cognizione del dolore”, nel quale sono presenti svariate reazioni al dolore del protagonista da parte di personaggi più o meno centrali alla vicenda, si è cercato di rintracciare reazioni parallele in altri testi letterari e filosofici.
Ne “La cognizione del dolore”, Carlo Emilio Gadda, uno dei maggiori esponenti della letteratura del novecento, offre una trasposizione di fatti personali che vengono illustrati al lettore sotto forma di racconti che lo stesso autore definisce “tragiche autobiografie”. Data questa premessa, si può notare come nel testo preso in considerazione il rapporto madre-figlio, leitmotiv della vicenda, non sia altro che una riedizione del difficile rapporto dello scrittore con i genitori, responsabili di aver rovinato economicamente la famiglia e di conseguenza di averla abbassata nel sociale, per costruire una villa che paradossalmente avrebbe dovuto essere un’ostentazione della loro agiatezza.Per quanto la trama risulti scarna- si parla infatti del difficile rapporto tra Ponzalo e la madre, un’anziana signora che al termine della vicenda verrà trovata quasi morta nel suo letto-, il linguaggio risulta invece estremamente complesso, soprattutto per la mescolanza di diversi elementi: uso di dialetti, gerghi, latinismi, vocaboli arcaici e aulici, neologismi e soprattutto il costante bilinguismo italo-spagnolo.La morte della madre nel 1936 è la molla che spinge Gadda a scrivere “La cognizione del dolore”; significative sono le parole dell’autore in risposta alla domanda “Qual è stata la persona che ha contato di più nella sua vita?” “Mia madre!” “Perché?” “Mi si polverizza la memoria…”, parole dalle quali si capisce il rapporto di amore-odio con la madre che sta al fondo della vita dell’autore così come del romanzo in questione.Il libro verte sulla problematica esistenza del giovane Gonzalo che, segnato da una giovinezza di stenti, ristrettezze economiche e tragedie familiari, si sente respinto dalla vita e reagisce rifiutando tutti gli altri, colpevoli di non aver conosciuto “il lento pallore della negazione”.Gonzalo nutre un profondo odio verso i peones, i contadini della villa, mantenuti a sue spese senza ottenere in cambio alcun servizio.Proprio una visita di un gruppo di peones alla madre costituisce il punto di svolta del racconto: Gonzalo, alla vista della madre circondata dai contadini, sente esplodere dentro di sé il dolore, mescolato alla rabbia, e si rivolge duramente alla madre con una frase che potrebbe essere presa come emblema del rapporto amore-odio: <
Il primo tipo di reazione al dolore, quello dei peones, può essere ritrovata nella letteratura latina, nell’incipit del secondo libro del “De rerum natura” di Lucrezio: qui si collocano i celebri versi “Suave mari magno turbantibus aequora ventis,/ e terra magnum alterius spectare laborem”.La vista di alcuni individui in difficoltà per il mare agitato dai forti venti provoca nel saggio epicureo, che vede la situazione isolato probabilmente dall’alto di una costa, non un piacere sfacciato per il disagio altrui, ma un aumento della sua consapevolezza di persona privilegiata, libera dai mala che affliggono l’umanità: c’è così un assaporamento della vera felicità, che consiste nell’assenza di dolore (aponia).In questa catarsi tragica si potrebbe a prima vista condannare il saggio per un eccessivo amor proprio (fin dai tempi di Voltaire è stato visto in questo passo una sorta di egoistico compiacimento per le disgrazie altrui), ma invece a una lettura più attenta non può sfuggire come ci sia una dolorosa compassione nel vedere la cieca ignoranza in cui ancora si attarda l’umanità.La reazione al dolore altrui proposta da Lucrezio è una sorta di terza via tra il totale distacco provato di fronte al dolore altrui o addirittura il piacere per la situazione vista e la disperazione.
FILOSOFIA
Il secondo tipo di reazione, quello provato nel testo gaddiano dalle donne del popolo, si ritrova in due autori, Joaquim Machado e Arthur Schopenhauer.Con chiaro rimando al testo lucreziano, l’autore brasiliano, nato a Rio De Janeiro nel 1839, compone nel 1880 la sua poesia “Suave mari magno”, nella quale affronta le reazioni dei passanti di fronte alla morte di un cane per strada; “Nessuno, neppure un curioso/ passava senza fermarsi/ silenzioso/ vicino al cane che stava per morire/ come se gli facesse piacere/ vederlo soffrire”: studiandone il contenuto si capisce come il dolore altrui, in questo caso quello di un cane, sia non solo totalmente indifferente ai passanti, ma addirittura porti ad un sadico piacere, proprio come le donne del popolo nel testo di Gadda non perdono occasione di attaccare Gonzalo e provare piacere per il suo dolore.Nello stesso contesto possono essere inseriti alcuni scritti del filosofo di Danzica, per il quale il dolore è un elemento essenziale; se infatti volere significa desiderare e desiderare significa essere in uno stato di tensione per la mancanza di qualcosa che si vuole, la vita è per essenza dolore.Di fianco al dolore Schopenhauer pone la noia, che subentra quando vien meno lo stimolo del desiderio: “La vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia, passando fugacemente per il piacere”.Precisato questo e ricollegandoci al testo di Machado, prendiamo in considerazione la critica all’ottimismo sociale in cui il filosofo afferma come si tratti di una menzogna la tesi della bontà e socievolezza umana; per lui ciò che regola i rapporti tra gli individui è il conflitto e il tentativo di sopraffazione reciproca e, se gli uomini vivono assieme, non è per simpatia o socievolezza, ma per bisogno (“Ciò che rende gli uomini socievoli è la loro incapacità di sopportare la solitudine e in essa sé stessi”).L’estrema rappresentazione di questo suo pensiero si ritrova in passo della sua opera “Parerga e Paralipomena”, che gli dette una fama tardiva, dove si mostra come la cattiveria innata dell’uomo verso i suoi simili è evidente dal fatto che le disgrazie altrui ci provocano spesso una malcelata soddisfazione e invece ogni vantaggio del prossimo ci irrita a tal punto che talvolta siamo spinti a comportarci come quel carceriere che “quando scoprì che il suo prigioniero era riuscito faticosamente ad addomesticare un ragno e traeva diletto da ciò, subito lo schiacciò”.Dal medesimo testo: “L’uomo è l’unico animale che provoca dolore agli altri al solo scopo di far soffrire, le bestie lo fanno o per fame o nel furore di una lotta”.
Una risposta al dolore altrui totalmente diversa da quelle analizzate finora, ma riconducibile alla terza riscontrata nel testo di Gadda, cioè quella della madre, è offerta da un lavoro del poeta inglese Wilfred Owen, “Dulce et decorum est”.Questo autore fa parte di un gruppo di poeti denominati War Poets perché attivi in prima linea sul fronte; i componenti di questa cerchia furono spinti in guerra dal grande entusiasmo che si respirava intorno a questo conflitto, ma una volta capito l’andamento dello scontro vollero raccontarlo tramite le loro opere.Owen è oggigiorno considerato la più alta testimonianza sulla guerra dei tempi moderni, poiché è riuscito ad inquadrare il dolore causato da questo evento in quadretti di vita quotidiana nelle trincee e negli ospedali con tale maestria da donare al lettore delle atmosfere e degli scenari che lo catapultano all’interno della situazione bellica: emblema di questa situazione è la poesia “Dulce et decorum est”, dove, l’uso di rime imperfette, assonanze, consonanze, allitterazioni, fanno da cornice ad un quadro che, con la medesima capacità di un film, denuncia gli orrori della guerra.È una descrizione cruda, con immagini violente, ma allo stesso tempo spaventosamente realistiche (“All went lame, all blind drunk with fatigue” “Tutti finivano azzoppati, tutti ciechi ubriachi di stanchezza”): l’immagine principale e quella che rimane più alla mente come denuncia del dolore provocato dalla guerra è quella di un giovane che lo stesso poeta vede morire e che lo tormenta in tutti i suoi sogni.Proprio in seguito a questa straziante visione, il poeta fa una critica a chi, tralasciando la narrazione del peggio di una guerra, continua a raccontare ai giovani ansiosi di conoscere gesta disperate la vecchia bugia: “Dulce et decorum est pro patria mori”.Con questo finale, preso in prestito dal poeta Tirteo del VII secolo a.C., vuole mostrare non la sua conoscenza dei classici, come ad una lettura superficiale potrebbe sembrare, ma come la guerra si protragga ormai da millenni con il suo carico di dolore.Da questo si capisce come solo Owen, avendo vissuto dall’interno l’orrore di una guerra, possa raccontarne il reale svolgimento;così come solo la madre di Gonzalo è ha conoscenza della reale situazione del figlio, vivendo ogni giorno con lui e provando sulla sua pelle le conseguenze del dolore che affligge il figlio.